Simone Marchesi Libertà va cercando: una lettura stratigrafica |
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In riposta alla sollecitazione contenuta nella nota appena pubblicata da Romano Manescalchi sull’interpretazione spirituale, ad esclusione di quella politica, che si dovrebbe assegnare alla parola libertà in Purgatorio 1.71, vorrei proporre un lettura stratigrafica della dichiarazione di Virgilio, che la inserisca tanto nel contesto immediato del dialogo con Catone quanto in quello più vasto delle auctoritates che gli vengono assegnate nel corpo della Commedia. Si tratta, infatti, di due contesti in cui è possibile misurare una distanza tra la lettera di quanto è dichiarato dalla prima guida del protagonista e il suo potenziale significato per i lettori del testo. Non è, infatti, né la prima né l’ultima volta che nel poema è possibile notare una discrepanza tra l’intentio autoriale attribuita al personaggio (per quanto è possibile ricostruirla da elementi contestuali) e il senso ultimo che le parole che vengono messe a testo dovrebbero assumere per i lettori (di nuovo, per quanto è possibile determinarle sulla base delle coordinate morali generalmente accettate per il poema). Non si tratta, certamente, di un’argomentazione nuova, quanto piuttosto di un invito ad estendere anche a questo passo l’applicazione di una strategia di lettura che si è dimostrata fruttuosa in altri snodi narrativi della Commedia. Che Virgilio sia un lettore solo parzialmente competente nell’interpretare situazioni narrative costruite nel poema è un corollario critico abbastanza generalmente accettato. Esempi conclamati della sua capacità di dire la verità su di un fenomeno che appartenga alla dispensatio temporalis cristiana senza comprendere le implicazioni spirituali delle proprie parole vanno dalla sua esposizione compendiosa delle cause del terremoto seguito alla Crocifissione in Inferno 12.41-43 allo stupore che accompagnerà la rivelazione da parte di Stazio di un significato prima morale e poi metafisico di due segmenti del suo testo in Purgatorio 22.37-42 e 70-72. In entrambi i casi, pur con l’evocazione di gradi di competenza autoriale e di sorpresa narrativa diversi, il meccanismo interpretativo che il lettore sembra essere invitato ad attivare è lo stesso: esiste una verità di base (di natura spirituale e di inflessione cristiana) nelle parole di Virgilio, una verità che il personaggio è presentato come incapace –unwilling or unable, ma questa è questione troppo vasta e delicata per essere affrontata qui– di cogliere, ma che è invece aperta per un lettore che si muova in coordinate interpretative moralmente e spiritualmente più solide di quelle della guida. Nel caso specifico delle parole rivolte a Catone per definire la natura della quete del protagonista, inoltre, l’evocazione in funzione di postulato della libertà –la stessa per cui Catone non avrebbe trovato amara la morte a Utica– non è il solo elemento della strategia retorica che Virgilio dispiega per guadagnare a Dante l’accesso al secondo regno che abbia natura quantomeno dubbia. Nei versi immediatamente seguenti, come contrafforte argomentativo ad hominem (e ab homine), per pregare Catone di concedere il passo al protagonista, Virgilio declina le proprie generalità di limbicolo e nello stesso tempo si appella al nome di Marzia, presso alla quale promette di lodarlo (Purgatorio 1.78-83). La risposta di Catone è lapidaria: quelle che gli sono state appena porte sono ‘lusinghe’ (v. 92), basate come sono su una presunzione di attaccamento ad elementi ormai sorpassati della propria biografia terrena. Poco importa, si può aggiungere, se questa movenza retorica era già stata usata in altro contesto e con altre finalità (Inferno 2.) Se il versante familiare e sentimentale della strategia argomentativa di Virgilio è, insomma, esplicitamente respinto e accuratamente ribattuto da Catone (non in nome di Marzia, ma in quello di una ‘donna del ciel’ è giusto pregare per ottenere di essere ammessi all’esperienza spirituale del purgatorio), anche il primo elemento della sua argomentazione, per prossimità e co-autorialità con l’evocazione del principio della ricerca della libertà, viene investito da una luce quantomeno obliqua. Se è chiaro, cioè, che ai lettori vengono offerti tutti gli elementi per vedere come Virgilio abbia compiuto un vero e proprio passo falso nell’apostrofe a Catone, è possibile che sia loro anche richiesto di prendere con una misura di scetticismo ermeneutico anche ciò che precede nell’argomentazione. È vero che non si ha, nel caso dell’invocazione della libertà, una dimostrazione esplicita dell’errore di prospettiva che viene attribuito a Virgilio nel caso dell’evocazione di Marzia, ma è altrettanto vero che la Commedia sa servirsi di personaggi intermedi per ottenere effetti di distanziamento dalla voce d’autore e invitare cambiamenti di prospettiva nei lettori. Rendere Virgilio responsabile di una visione limitata della libertà e nello stesso tempo invitare i lettori a vedere nelle sue parole un riferimento ad una superiore prospettiva –quella libertà morale che Manescalchi giustamente rivendica come obiettivo centrale del messaggio etico della Commedia– non è una strategia estranea al poema. Riconoscere, insomma, che il poema lascia alle parole di cui sono fatti i suoi personaggi ampi margini di ambiguità e indipendenza aiuta, in questo come in altri casi, a restituire una vitale complessità al rapporto costruito nel testo tra intento d’autore e intendimento dei lettori. Tra la libertà ‘politica’ della prospettiva attentamente pre-cristiana che viene attribuita qui a Virgilio (e che si trova in alcune letture della Commedia) e la libertà ‘spirituale’ che i lettori sono invitati a vedere riflessa nelle sue parole (come ci ricorda Manescalchi) viene a collocarsi il ruolo attivo del lettore, a cui il testo demanda il compito di distinguere tra le due sfere dell’esistenza e di ordinarle in rapporti di sufficienza e di necessità. |