Lino Pertile |
||||||
A leggere le note alla Commedia sembrerebbe che quasi ogni frase dantesca fosse un distillato di cultura libresca e di ammiccamenti intertestuali che la secolare industria dei dantisti e' chiamata a smascherare. Ma ci si chiede se questa situazione rifletta sempre l'oggettiva ricchezza del testo o non sia piuttosto il risultato di una dinamica intrinseca alla ricerca stessa. Che il poeta sia dotto e complesso nessuno dubita. Anzi, tanto radicata e' questa convinzione che a malapena gli si concede il diritto di essere semplice e piano. Esemplare ci sembra il caso di Bonconte alla cui parlata si attribuiscono -- indebitamente, a mio avviso -- squisitezze assai poco confacenti a un guerriero. Si ricorderanno i versi con cui Bonconte descrive le azioni diaboliche che portano allo scatenarsi del nubifragio sopra la sua "carne sola" (Purg. 5.115-118):
Indi la valle, come il di' fu spento, da Pratomagno al gran giogo coperse di nebbia; e 'l ciel di sopra fece intento, si' che 'l pregno aere in acqua si converse; Per spiegare la frase "e 'l ciel di sopra fece intento" (117) la tradizione invoca tutta la batteria dei classici latini (Virgilio, Orazio, Lucano) e italiani (Petrarca e Tasso). Ecco la glossa del recente commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi:
Tutto il paesaggio e' sospeso: prima l'oscurita' della sera, poi la nebbia, poi il cielo *intento*, cioe' intenso, denso di vapore, quasi in attesa di liberazione (cfr. il *pregno* che segue). Questo significato deriva dal valore di "addensare," "infittire," ritrovabile nel lat. *intendere* (Torraca), da cui il nostro *intenso*. Cfr. per l'immagine Orazio, *Ep*. 13.1: "Horrida tempestas caelum *contraxit*..." e Petrarca, *RVF* 66.1-2: "L'aere gravato e l'importuna nebbia / *compressa* intorno da rabbiosi venti" (Biagioli). Questa glossa e' bella e dotta, ma e' pertinente? Il problema e' come interpretare il termine intento. Vincenzo Valente nell'ED (III.479), dopo aver segnalato gli esempi di intento nel senso di 'attento' "con concreto riferimento all'atto del guardare con ansiosa attenzione," aggiunge: "Diverso e' il senso in Pg 5.117: qui sta per 'intenso', 'denso', per indicare il cielo coperto di nubi e di vapori." Su questa posizione si trovano allineati quasi tutti i commenti antichi e moderni, con la parziale eccezione del Singleton che, memore di Daniello, Vellutello e Serravalle, spiega: "Ready to pour forth its vapours as rain." La chiosa del Buti, per quanto oscura, e' interessante perche' riferita a una lezione giel anziche' ciel: "e il giel di sopra fece intento; cioe' caccionne lo dimonio lo gielo che era sopra li vapori, a cio' che piu' fortemente ripellesse li vapori umidi e risolvesseli in acqua." Nella sua edizione critica il Petrocchi nota acutamente: "La variante giel e' causata da incomprensione di fece intento [...] e si e' prodotta indipendentemente da un rapporto tradizionale." In breve, l'intera tradizione esegetica, escluso per ora Benvenuto, fa derivare l'intento dantesco da "intendere" e lo interpreta nel senso di 'teso,' 'denso,' e quindi anche 'disposto, pronto a scoppiare.' A conforto di tal lettura si adducono regolarmente l'autorita' scientifica di Aristotele (v. E. Moore, Studies in Dante I, 301) e il modello poetico dei classici (oltre ai sopra citati si sono addotti Virg., Aen. 4.506, Georg. 1.248 e 322-6, e Lucano, Fars. 9.472-3). Che si vuole di piu'? E' vero che non si da' altro esempio analogo di "intendere" nel lessico, sia volgare che latino, di Dante o d'altro autore italiano; questa pero' viene considerata un'ennesima prova della prodigiosa inventivita' del poeta non che' della sua capacita' di assorbire le fonti antiche e creare nuove forme con le quali estendere la gamma espressiva della nuova lingua. Tanto piu' che all'interpretazione vulgata non s'e' mai presentata nessuna alternativa: o quasi nessuna. In effetti Benvenuto propone un'alternativa, ma nessuno, a quanto mi risulta, ci ha mai badato. Ecco la sua chiosa:
et ille demon: fece el ciel intento di sopra, idest, fecit aerem intinctum et obfuscatum magna caligine nebulae, vel superimposuit frigus deprimendo nubes ex quo facta est pluvia.Benvenuto propone due spiegazioni a seconda che si legga "ciel" oppure "giel." Nel primo caso il demonio, dice, rese l'aria (el ciel) tinta e fosca della grande caligine della nebbia; nel secondo sovrappose il gelo (el giel) alle nubi costringendole cosi' a scendere -- spiegazione che, mi pare, e' alla base di quella del Buti. Solo nel secondo caso Benvenuto interpreta intento come participio di "intendere." Nel primo scrive "intinctum et obfuscatum" e nessuno dei due aggettivi ha nulla a che vedere con "intendere." Orbene, questo e' un passo in cui il presupposto della dottrina del poeta ha giuocato contro l'intelligenza del testo, complicando cio' che in realta' vuol essere molto semplice. Intento non deriva da "intendere," ma, come implica Benvenuto, da "intingere," e significa semplicemente 'nero, fosco, buio, coperto di fuliggine.' Il participio passato di "intingere" e', naturalmente, "intinto," ma in antico, come attesta il Grande dizionario della lingua italiana, questa forma anafonetica coesisteva con quella non anafonetica, intento. Anzi, il Rohlfs (Grammatica storica, 1966, paragr. 49) spiega che quest'ultima e' la forma di derivazione piu' regolare, mentre quella in -i- e' una particolarita' di dialetti quali il fiorentino e il pisano in cui davanti a consonante palatale (e, in certe condizioni, nasale + palatale/velare) si trova -i- invece di -e-: per es. vincere, lingua, tinca, tingere, fingere, cingere, spingere, etc. In altri dialetti toscani, compreso l'antico senese, si trova: tenca, ramengo, spenta, tegne ('tinge'), etc. Il Monaci-Arese (Crestomazia, paragr. 33) segnala parecchi esempi di questo fenomeno; altri si trovano in un sondaggio della poesia del Quattrocento, d'area sia settentrionale che meridionale, eseguito dal Vitale (Rivista Italiana di Dialettologia X; 1986, pp. 10 e 18); altri ancora si possono vedere nelle Annotationi nel Dante di Trifon Gabriele da me curate (p. C). Il GDLI offre un solo esempio di intento nel senso di 'tinto, colorato', ma e' probabile che la forma fosse assai piu' comune nel parlato. Il Boerio registra tento col significato specifico di 'nero, scuro.' Nel dialetto che io conosco meglio, una varieta' rustica del veneto, le forme normali di "spingere, tingere, fingere" sono in -e-: per es., spenzere, tenzere, fenzere; al part. pass.: spento, tento, fento (quest'ultimo ormai disusato, ma attestato nel Boerio). Nello stesso dialetto intendere (o intenzere) significava precisamente 'annerire, sporcare di fuliggine,' ed era termine diffusissimo al tempo in cui si cucinava sul fuoco a legna e gli utensili domestici e i muri delle cucine, nonche' i volti e le mani dei bimbi e degli addetti ai lavori, erano spesso intenti, cioe' 'neri di fuliggine.' Ad ogni buon conto, intenzer e intento sono registrati in vari vocabolari veneti, per es., nel Vocabolario padovano e veneziano del Patriarchi (Padova, 1796) e con il significato di 'annerire, sporcare di nero' nel Dizionario del feltrino rustico di Migliorini e Pellegrini (Padova, 1971). Tanto basti, mi auguro, a dimostrare l'esistenza di intento come forma non-fiorentina di "intinto." Ebbene, e' proprio questa la parola che in tutta evidenza Dante mette in bocca a Bonconte a Purg. 5.117: una scelta condizionata certo dalla rima vento-spento, ma allo stesso tempo singolarmente conveniente alla fisionomia del personaggio che la pronuncia. Bonconte parla una lingua piana e in tutto degna del suo rozzo mestiere: il diavolo, dice, riempi' di vapore la valle e rese il cielo sopra di essa nero come fuliggine, sicche' l'aria satura si converti' in acqua e incomincio' a piovere a dirotto.... Via Virgilio, Orazio, Lucano; via Petrarca, via la solita sfilza di intertesti dotti, risalta incontrastata l'integrita', la coerenza e la freschezza del ritratto popolaresco di Bonconte. |