Lino Pertile |
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Mio caro Bob,
il tuo articolo di questi giorni, "Dante's Deployment of Convivio in the Comedy" {EBDSA, 7 October 1996} mi da' motivo di riprendere il discorso, da me iniziato tre anni fa, sui rapporti tra Commedia e Convivio. Tre anni non sono passati invano. Grazie anche alla nostra fitta corrispondenza, ho avuto modo di riflettere su questo problema; ora poi e' uscita la nuova edizione critica del Convivio per cura della compianta Franca Ageno {Firenze, Le Lettere, 1995}. Mi sento quindi in grado di mettere meglio a fuoco la mia posizione e forse anche di fare qualche passo avanti. Che tra Commedia e Convivio esistano rapporti profondi e sostanziosi non e' in discussione. Su questo punto ci troviamo in perfetto accordo; anzi, mi auguro di vedere presto lo studio sistematico che tu ci prometti in proposito. Bada pero' che la questione preliminare da discutere, e su cui prendere partito, e' se le riprese del Convivio nella Commedia siano da considerarsi un fatto privato o pubblico: se siano cioe' episodi interni, superati nel corso dell'evoluzione naturale del pensiero del poeta e come tali vadano studiati, come io credo, o esperienze intellettuali che il poeta esibisce con assoluto candore nella sua opera maggiore allo scopo di trarne lezioni esemplari a edificazione del lettore, come credi tu. Questo e' il punto cruciale su cui noi due decisamente dissentiamo. Tu -- con dalla tua parte una tradizione esegetica ormai consolidata -- sostieni che ogni aggiustamento di tiro, ogni contraddizione o conferma del pensiero del Convivio, quando appaia nel poema, diventa ipso facto un atto pubblico con cui Dante prende deliberatamente posizione sui suoi trascorsi di intellettuale e artista. Quando percio', passando dall'una all'altra opera, cambia idea o giudizio, tu sostieni che, cio' facendo, il poeta denuncia apertamente i suoi errori. Su questa base, in compagnia d'altri illustri dantisti, tu ti figuri un Dante "palinodico"; anzi, arrivi a sostenere che questa disposizione, per cosi' dire, penitenziale del poeta, contribuisce in maniera rilevante al significato globale della Commedia. Ebbene, questa tua operazione esegetica non e', a mio sentire, ne' direttamente autorizzata da Dante, ne' incoraggiata da quanto sappiamo sul Convivio. I fatti, per quanto riguarda le circostanze esterne, sono questi. 1) In tutta la sua opera Dante non nomina mai il Convivio. 2) Non abbiamo nessuna prova che l'esistenza del Convivio fosse nota ad altri che a Dante stesso fino a dopo la sua morte. Ti ricordo a questo proposito che, mentre la circolazione dell'Inferno e del Purgatorio e' attestata gia' fin dal secondo decennio del Trecento, nessun documento esiste per il Convivio, benche' il trattato sia anteriore al poema. 3) I primi commentatori a servirsi del Convivio sono Pietro e l'autore dell'Ottimo, i quali pero' ne parlano come di "chiosa" o "commento" di Dante alle sue canzoni e comunque gia' usano testi corrotti. La prima citazione del titolo del trattato si trova, a quanto mi risulta, nella terza redazione dell'Ottimo {vedi Giuseppe Vandelli in Studi Danteschi 14 (1930), 160}. 4) Il piu' grande editore e divulgatore del Dante volgare nel Trecento, il Boccaccio, descrive brevemente il Convivio nel Trattatello come "assai bella e laudevole operetta," ma curiosamente non lo nomina ne' cita altrove, ne' ce ne tramanda un solo paragrafo, una decisione incomprensibile se avesse avuto per mano un esemplare, per quanto inaffidabile, del trattato dantesco. In base a questi dati, non ti pare che Dante si illudesse se, come tu credi, scriveva il poema come se il Convivio fosse di pubblico dominio? I dati relativi alla tradizione del testo del Convivio sono ancora piu' eloquenti. Nella storia dell'ecdotica italiana il trattato detiene un singolare primato: il suo archetipo si configura con oltre venti lacune e un migliaio di errori. Per darti un'idea del significato di queste cifre, basti dire che la Vita Nuova presenta secondo Michele Barbi quattro errori d'archetipo, e soltanto uno di sicuro e due di possibili secondo Guglielmo Gorni {la sua nuova edizione critica e commento del prosimetro, pubblicata da Einaudi, arriva nelle librerie italiane in questi giorni}. Se l'archetipo era gia' guasto in questa misura davvero sbalorditiva, che cosa dobbiamo pensare dell'originale da cui esso fu tratto, cioe' del mitico "scartafaccio"? In quali condizioni dovette presentarsi all'occhio del suo primo copista per dar luogo a tanti errori e lacune? Tra i suoi molti meriti Franca Ageno ha anche quello di averci dato un testo del Convivio con tutte le sue lacune intatte e, in apparato, gli errori, sicche' ogni lettore puo' finalmente rendersi conto dello stato di incompiutezza dell'opera. Ora ci si chiede: e' concepibile che Dante divulgasse un'opera incompleta, lacunosa e scartata, se non proprio rifiutata, in favore della Commedia? Un'opera che non raggiungeva nessuno degli scopi che si prefiggeva e che comunque il poema contraddiceva spesso e in modo tanto clamoroso? A che pro l'avrebbe fatto? E se l'avesse fatto, non si sarebbe assicurato che cio' non avvenisse a sue spese, mettendo un po' d'ordine nel manoscritto prima di abbandonarlo al suo destino? Senza dire che le canzoni conviviali non avevano bisogno di essere pubblicate, circolando gia' da anni nelle sillogi delle rime. Devo ammettere che fino a qualche anno fa' accettavo anch'io, senza darmene pensiero, l'incauta conclusione del Barbi il quale, pur essendo a conoscenza di quanto ti ho riassunto qui sopra (vedi le pp. LVII-LVIII della sua Introduzione all'ed. Busnelli-Vandelli), ipotizzava una disseminazione limitata del trattato da parte di Dante. Ma il Barbi non riteneva importante la questione ne' poteva prevedere gli sviluppi presenti di essa. E del resto la tradizione esegetica si e' sempre comportata come se il problema non esistesse, pur implicando il Convivio in misura sempre piu' determinante nella lettura del poema -- come risulta dai dati che tu presenti nel tuo articolo. In questi ultimi anni pero', grazie a lavori tuoi e d'altri valenti studiosi nordamericani, e' avvenuto un salto di qualita' nell'utilizzazione del Convivio. Ora si ricorre contrastivamente al trattato per completare e arricchire l'autoritratto che il poeta consegna al poema. E' proprio questo l'approccio che io non posso accettare, finche' non mi si provi che Dante scriveva la Commedia tenendo conto di un pubblico, per quanto esiguo, che fosse a conoscenza del Convivio. Questa dimostrazione non c'e' nel tuo articolo ne', per quanto mi risulta, e' mai stata data altrove. Per ora, dunque, la tua ipotesi mi sembra francamente tanto gratuita quanto onerosa per le sue implicazioni. Per quanto mi riguarda, a parziale correzione di cio' che scrivevo tre anni fa, ritengo del tutto ragionevole pensare, fino a prova contraria, che Dante non abbia mai personalmente divulgato o autorizzato la divulgazione di quelle parti del Convivio che aveva scritto quando, per cosi' dire, lo colpi' il fulmine della Commedia. Lo "scartafaccio" Dante se lo tenne ben chiuso nel cassetto come esperimento utile ma abortito per l'urgere del poema; lo rivisito' certo -- come a tutti avviene di fare con le proprie carte -- traendone a piene mani materiali che adibi' liberamente alla costruzione della nuova opera e che noi facciamo benissimo a studiare. Ma dire di piu' sarebbe temerario. Cosi' la pensano, o inducono a pensare, tutti gli studiosi piu' recenti della tradizione del testo del trattato: Quaglio, Pernicone, Simonelli, Rossi, Ricci e la recentissima Ageno. Spetta a te, caro Bob, dimostrare che si sbagliano. Spetta a te provare che l'incompiutissimo Convivio circolava mentre Dante era vivo e vegeto e andava scrivendo il contrario di quello che aveva scritto nel trattato cinque, dieci o quindici anni prima. Solo a questo patto mi convincerai che il nostro autore, scrivendo la Commedia, spesso e volentieri si cospargeva il capo di cenere e riconosceva pubblicamente i suoi passati errori. Nel frattempo, anziche' un Dante palinodico e penitenziale, io continuo a figurarmene uno che si spezza ma non si piega; che passa vent'anni in esilio senza scendere a patti con Firenze; che scrive le lettere che sai agli italiani, ai fiorentini, all'imperatore, ai cardinali; che, in caso di necessita', si contraddice pubblicamente senza fare una piega (vedi il caso di Curione nell'Epistola 7.16 e in Inf. 28.91-102); un Dante insomma che, come si capisce leggendo la Commedia alla luce del Convivio, in segreto sperimenta, ricerca, sbaglia e magari corregge il tiro, ma si guarda bene dal fare pubblica ammenda. Spero, mio caro Bob, ma non mi illudo, di averti convinto. In ogni caso sai bene che la nostra amicizia e' molto piu' tenace del nostro dissenso di dantisti. Credimi dunque sempre cordialmente tuo, L. P. |