Nicola Fosca
(unaffiliated scholar, Turin)
5 May 2005


Ancora sul "quodammodo" di Monarchia III.xv.17

Nell'ultimo capitolo della Monarchia si legge della distinzione tra i due fini dell'uomo, i duo ultima : da un lato, la beatitudine della vita terrena, conseguibile operando secondo le virtù acquisite, morali ed intellettuali, dall'altro, la beatitudine celeste, conseguibile solo nella vita eterna (contemplazione divina). Alla prima conduce l'Imperatore, che si serve all'uopo dei "phylosophica documenta", alla seconda il Sommo Pontefice, sulla base dei "documenta spiritualia". Tale distinzione, che sembra garantire l'autonomia del naturale dal sovrannaturale, della ragione dalla fede, stride in modo vistoso con la chiusa del trattato, in cui si legge che la "mortalis felicitas" è ordinata, "quodammodo", alla beatitudine eterna, celeste: ciò significa che, in un corretto orizzonte finalistico, la prima è condizione della seconda, ma questa porta quella a compimento e perfezione. In tal modo l'autonomia della dimensione 'naturale' viene meno e la Monarchia sembra concludersi in un vicolo cieco, in una vera e propria aporia, irresolubile in termini filosofici o teologici. Tale è la conclusione di Gustavo Vinay ( Interpretazione della Monarchia, Firenze, 1962, p. 74), che giudica senza costrutto i tentativi degli studiosi volti a sminuire d'importanza la chiusa dell'opera allo scopo di salvaguardare la prospettiva 'laica' in questione.

Lo studioso che si è maggiormente impegnato in questa lettura 'laica' è senz'altro Bruno Nardi, il quale ritiene che la tesi dell'autosufficienza dell'Impero trovi un solido fondamento, nella Monarchia , proprio nel concetto dell'autonomia del fine naturale dell'uomo. Indubbiamente i tentativi del Nardi di conciliare questa prospettiva con la chiusa dell'opera non possono dirsi riusciti, tuttavia resta il fatto che il tema dell'indipendenza della dimensione naturale appare incompatibile con l'orizzonte ideologico della Commedia , donde l'esigenza, espressa ad esempio da Anna Maria Chiavacci Leonardi (in Studi medievali , 1977, pp. 713-749), di evidenziarne l'importanza anche ai fini della datazione del trattato politico (la cui stesura, secondo Nardi, precede quella della Commedia ). Ma, al di là dei problemi cronologici, possiamo veramente dire, con Nardi, che la distinzione fra i "duo ultima" è incompatibile con l'approccio di san Tommaso e, soprattutto, con quello della Commedia , ove in più luoghi emerge il tema della frustrazione cui conduce, nella vita terrena, ogni tentativo di soddisfare il desiderio naturale di sapere?

Nardi insiste sulla seguente argomentazione: se la beatitudine di questa vita è un fine ultimo, essa non rimanda necessariamente all'altro fine sovrannaturale, in cui troverebbe perfetto adempimento; ciò è ovviamente negato dall'Aquinate, per il quale la beatitudine di questa vita è imperfetta, incompleta. In verità Tommaso, definendo la "beatitudo" quale "ultima perfectio" della natura razionale, afferma che tale "ultima perfectio" è duplice: una conseguibile "virtute suae naturae" (e si tratta solo di una "quodammodo beatitudo"), l'altra conseguibile solo nella vita eterna. Il brano ( ST I.62.1: sulla "natura angelica"), segnalato da Vinay, è importante perché il concetto di "ultima perfectio" è ammesso in un ambito, quello naturale, in cui è consentita solo una "beatitudo" limitata. Di conseguenza, la separazione tra i "duo ultima" non sembra de jure incompatibile con la consapevolezza che il fine naturale è ultimo ma non perfetto in termini assoluti: esso rinvia in conseguenza ad un fine superiore in quanto costituisce il massimo conseguibile dall'uomo "virtute suae naturae" o, come afferma l'Alighieri, in quanto essere corruttibile ( Mon . III.xv.6). Discutendo del brano tomistico, Nardi non pone nel debito rilievo il fatto che anche il fine naturale viene chiamato "ultimo" e ribadisce che, per l'Aquinate, la vera, ultima "beatitudo" è quella celeste ( Dal 'Convivio' alla 'Commedia' , Roma, 1960, p. 92), la quale sola soddisfa il desiderio naturale di sapere (Ivi, p. 294). E per dare sostegno a tale approccio, Nardi si basa sul cosiddetto "averroismo" di Dante, quale emergerebbe nel primo libro della Monarchia : "proprium opus humani generis totaliter accepti est actuare semper totam potentiam intellectus possibilis" (iv.1). In tal modo l'Impero rende possibile quell'unità del genere umano che è condizione per il raggiungimento del suo fine naturale; questo fine, realizzandosi nell'attuazione dell'intelletto possibile, ha per sua guida i "documenta phylosophica" senza alcuna subordinazione al fine sovrannaturale. Ma risolve questo il problema della "beatitudo"? Non pare, dato che l'attuazione completa dell'intelletto possibile è questione di genus , non di individuum , mentre la "beatitudo", funzionale al possesso delle virtù, concerne l'anima individuale ( ST I-II.2.7). Al di là della presenza dell'"averroismo", perciò, presenza messa in dubbio dalla maggioranza dei dantisti, possiamo fissare un punto: la teoria dei "duo ultima" non è di per sé incompatibile con la conclusione della Monarchia , ovvero con il quadro ideologico della Commedia . Ma allora, perché il "quodammodo"?

  Se Nardi ha battuto la pista 'laica', altri studiosi si sono mossi in direzione opposta. Così Michele Maccarrone, il quale opportunamente parla di "monismo teocratico" della Monarchia : ogni potere deriva da Dio, ma il potere politico è indipendente da quello ecclesiastico, donde la distinzione fra teocrazia e ierocrazia. In effetti, l'Impero è per Dante strumento della grazia, è, come la Chiesa, "remedium contra infirmitatem peccati" ( Mon . III.iv.14). L'Impero può riuscire nel suo scopo, quello di garantire la "beatitudo" della vita terrena, solo perché tiene a freno con la legge la "voluntas corrupta" dei sudditi e perché le sue operazioni hanno portata provvidenziale. Accade quindi che individui dotati soltanto di virtù acquisite possono portare a compimento le loro possibilità naturali, malgrado i vulnera conseguenti al peccato originale, perché la soggezione all'Impero consente loro di non cadere vittime della cupidigia. Il peccato consiste da una parte nell' aversio a Deo (superbia come initium ), dall'altra nella conversio ad bonum commutabile (cupidigia come radix ); tuttavia i cittadini dell'Impero possono evitare la seconda pur essendo in situazione di aversio a Deo . Questo status morale caratterizza eternamente, per Dante, gli abitatori del Limbo (cfr. il nostro commento [DDP] a Inf . IV.34-42). In maniera decisamente eterodossa, Dante ritiene possibile che anche chi non è in stato di grazia possa evitare di peccare violando la misura della ragione: è la forza coercitiva della legge, che lo Stato giusto applica, a sorreggere la natura lapsa dell'uomo. Se dunque Maccarrone ha buon gioco nell'insistere sul "monismo teocratico", bisogna dire che egli, dichiarando che la teoria dell'Impero quale remedium non è compatibile con "la distinzione tra ordine naturale e ordine sovrannaturale, sulla quale Dante fonda la propria concezione imperiale nell'ultimo capitolo" (in Nuove letture dantesche , VIII, Firenze, 1976, p. 310), non rende giustizia alla originalità del poeta: questi, in realtà, afferma audacemente (come attesta il rinvio al "paradiso terrestre": Mon . III.xv.7) che una "recta politia" ( Mon . I.xii.10) consente di realizzare le potenzialità naturali umane senza che la natura sia risanata o giustificata, senza cioè il possesso delle virtù teologali.

In cosa consiste, per l'Aquinate, la "beatitudo" raggiungibile in questa vita? "In hominibus [non si discute ora degli angeli] ... est ultima perfectio secundum operationem qua homo coniungitur Deo" ( ST I-II.3.2). Dunque tale "beatitudo" è conseguibile solo da chi possiede le virtù teologali, da chi è in stato di grazia. In questa vita, l'uomo può pervenire alla "beatitudo" "per principia suae naturae", ma si tratta di una beatitudine limitata, "proportionata humanae naturae": invece all'altra "beatitudo" può pervenire "secundum quandam divinam participationem", grazie alla "divina virtus" ( ST I-II.62.1; passo evidenziato da Michele Barbi, Problemi fondamentali per un nuovo commento... , Firenze, 1956, p. 95). E' chiara allora la (radicale) differenza nel merito fra il theologus - poeta e il Dottore Angelico: per il primo è conseguibile, in questa vita, una "ultima perfectio" con mezzi naturali (virtù acquisite), mentre per il secondo l'"ultima perfectio", sempre in questa vita, consiste nella "beatitudo supernaturalis" (avendo le virtù teologali carattere sovrannaturale). Grazie alla teoria dell'Impero quale dispensatore della grazia nel mondo, Dante porta alle estreme conseguenze ciò cui Tommaso era giunto. Per l'Aquinate l'uomo, aiutato da Dio, può comportarsi rettamente, dimostrando così il valore (negato da sant'Agostino) delle virtù cardinali, ma non può compiere "bonum suae naturae proportionatum, quale est bonum virtutis acquisitae" ( ST I-II.109.2); Dante si spinge ad affermare che l'uomo può vivere senza peccare (a parte la basilare aversio ), realizzando compiutamente, senza essere giustificato, le proprie capacità naturali (cosa impossibile per la standard view teologica, data la corruzione intrinseca dell'uomo, bisognoso di riparare la natura decaduta).

Si può dunque comprendere il motivo della presenza del "quodammodo": mentre il possesso delle virtù teologali garantisce la felicità eterna (e quindi la "beatitudo supernaturalis" è essenzialmente ordinata alla felicità che si avrà "in patria"), il possesso delle virtù cardinali (acquisite) ne è solo una distante (e non necessaria) precondizione, essendo indispensabile il passaggio dalla concezione di Dio quale Autore della Natura a quella di Dio quale Autore della Grazia, cioè la cancellazione dello stato di aversio a Deo . Si tratta di un passaggio possibile (infusione delle virtù teologali), ma non necessario; se, come propone Bortolo Martinelli (in Miscellanea di studi in onore di V. Branca , I, Firenze, 1983, p. 212), il termine "quodammodo" riguarda la categoria della relazione, dunque il campo dell'accidentale, si può dire che la relazione tra "mortalis felicitas" e "inmortalis felicitas" costituisce per Dante un nesso contingente, tale cioè che può o non può realizzarsi. Tale realizzazione esige il passaggio di cui sopra, un passaggio che fu compiuto da Catone, ma non da Virgilio.